(…)Poi d’autunno (1941) siamo partiti per la Jugoslavia; Ho ancora un coscritto a Epinel che era alpino e mi dice: “quella volta che siete intervenuti con l’artiglieria, avete fatto cataste di morti.” Cataste! Potevi accatastarli…Un’azione, come fosse da Ivrea ad Aosta, abbiamo spianato tutto. Dato fuoco a tutto, come da Ivrea ad Aosta! In guerra si abbrutisce. Non fai più caso a niente. Un morto, cos’è un morto? Ci facevano delle iniezioni; non so che cosa fosse: non ti ammalavi mai; la cosa più fastidiosa erano i pidocchi. Eravamo tutti pieni e non c’era verso… Tutto bruciava, povera gente, c’erano strade sterrate e loro scappavano con dei carichi di roba, tipo West; noi siamo passati a Spalato, Mostar, Sarajevo… Una volta sono stato tre giorni e mezzo senza mangiare, e al freddo, e sparando! Le prime ventiquattr’ore si ha una fame terribile, ma poi diminuisce; e poi sei assente, così, non sai dove sei…(…)
Quello che ci ha salvato a Cogne è stato la Miniera, perchè c’era lavoro e c’era da mangiare. Quando siamo tornati ci hanno fatti lavorare in Miniera, perchè questo dava l’esonero: sessanta giorni rinnovabili, e se te lo rinnovavano tre volte consecutive, non tornavi più al fronte. Io ho fatto tre anni e due mesi di guerra. Là ci sono rimasti trentaquattromila morti.(…) (da un’intervista a Emilio Martinetto)
(FOTO: libretto di lavoro, 43à compagnia del btgn Aosta nel 43 in Jugoslavia, il maresciallo Tito)